Agamben (IH:27) – experiência e conhecimento

Burigo (excerto)

É nesta separação de experiência e ciência que devemos ver o sentido — nada abstruso, mas extremamente concreto — das disputas que dividiram os intérpretes do aristotelismo da antiguidade tardia e medieval a propósito da unicidade e da separação do intelecto e sua comunicação com os sujeitos da experiência. Inteligência (noûs) e alma (psyche) não são, de fato, para o pensamento antigo (e — pelo menos até São Tomás — também para o pensamento medieval), a mesma coisa, e o intelecto não é, como nós estamos acostumados a pensar, uma «faculdade» da alma: ele não lhe pertence de modo algum, mas «separado, impermisto, impassível», segundo a célebre fórmula aristotélica, comunica-se com ela para realizar o conhecimento. Consequentemente, o problema central do conhecimento não é, para a antiguidade, o da relação entre um sujeito e um objeto, mas o da relação entre o uno e o múltiplo. Por isso o pensamento clássico não conhece um problema da experiência como tal; aquilo que se coloca, para nós, como problema da experiência, apresenta-se naturalmente, para ele, como problema da relação (da «participação», mas também da «diferença», como dirá Platão) entre o intelecto separado e os indivíduos em sua singularidade, entre o uno e o múltiplo, entre o inteligível e o sensível, entre o humano e o divino. E é esta diferença que o coro da Oréstia de Esquilo sublinha, caracterizando — contra a hybris de Agamenon — o saber humano como um pathei mathos, um aprender somente através de e após um sofrimento, que exclui toda possibilidade de prever, ou seja, de conhecer com certeza coisa alguma. [AgambenIH:27]

Original

In un certo senso, l’espropriazione dell’esperienza era implicita nel progetto fondamentale della scienza moderna. «L’esperienza, se viene incontro spontaneamente, si chiama caso, se appositamente cercata prende il nome di esperimento. Ma l’esperienza comune non è che una scopa slegata, un procedere a tastoni come chi di notte si vada aggirando qua e là nella speranza di imbroccare la via giusta, mentre sarebbe assai più utile e prudente aspettare il giorno e accendere un lume e, quindi, infilare la strada. L’ordine vero dell’esperienza comincia con l’accendere il lume; con esso poi rischiara la via, principiando dall’esperienza ordinata e matura e non già da quella saltuaria e a rovescio; prima deduce gli assiomi e poi procede a nuovi esperimenti». In questa frase di Francesco Bacone, l’esperienza in senso tradizionale — cioè quella che si traduce in massime e proverbi — è già condannata senza appello. La distinzione di verità di fatto e verità di ragione (che Leibniz formula affermando che « quando si aspetta che domani sorgerà il sole, si agisce da empirici, poiché è andata sempre così fino ad oggi. Solo l’astronomo giudica con ragione») sancisce ulteriormente questa condanna. Poiché, contrariamente a quanto si è spesso ripetuto, la scienza moderna nasce da una diffidenza senza precedenti nei confronti dell’esperienza com’era tradizionalmente intesa (Bacone la definisce una « selva » e un «labirinto», in cui si propone di mettere ordine). Dallo sguardo gettato nel perspicillum di Galileo, non uscirono sicurezza e fiducia nell’esperienza, ma il dubbio di Cartesio e la sua celebre ipotesi di un demone la cui sola occupazione è quella di ingannare i nostri sensi.

La certificazione scientifica dell’esperienza che si attua nell’esperimento — che permette di dedurre le impressioni sensibili nell’esattezza di determinazioni quantitative e, quindi, di prevedere impressioni future — risponde a questa perdita di certezza trasportando l’esperienza il più possibile fuori dell’uomo: negli strumenti e nei numeri. Ma, in questo modo, l’esperienza tradizionale perdeva in realtà ogni valore. Perché — come mostra l’ultima opera della cultura europea che sia ancora interamente fondata sull’esperienza: gli Essais di Montaigne — l’esperienza è incompatibile con la certezza e un’esperienza divenuta calcolabile e certa perde immediatamente la sua autorità. Non si può formulare una massima né raccontare una storia là dove vige una legge scientifica. L’esperienza, di cui si occupa Montaigne, era così poco rivolta alla scienza che egli ne definisce anzi la materia come un « subjet informe, qui ne peut rentrer en production ouvragère» e in cui non è possibile fondare alcun giudizio costante («il n’y a aucune constante existence, ny de notre estre, ny de celui des objects… Ainsin il ne se peut establir rien de certain de l’un à l’autre…»).

L’idea di un’esperienza separata dalla conoscenza ci è oggi diventata così estranea, che abbiamo dimenticato che, fino alla nascita della scienza moderna, esperienza e scienza avevano ciascuna il proprio luogo. Non solo, ma diverso era anche il soggetto cui esse facevano capo. Soggetto dell’esperienza era il senso comune, presente in ogni individuo (è il «principio che giudica» di Aristotele e la vis aestimativa della psicologia medioevale, che non sono ancora ciò che noi chiamiamo il buon senso), mentre soggetto della scienza è il noùs o l’intelletto agente, che è separato dall’esperienza, «impassibile» e «divino» (anzi, per essere precisi, la conoscenza non aveva neppure un soggètto nel senso moderno di un ego, ma piuttosto il singolo individuo era il sub-jectum in cui l’intelletto agente, unico e separato, attuava la conoscenza).

[(È in questa separazione fra esperienza e scienza che noi dobbiamo vedere il senso — per nulla astruso, ma estremamente concreto — delle dispute che divisero gli interpreti dell’aristotelismo tardo-antico e medioevale circa l’unicità e la separazione dell’intelletto e la sua comunicazione coi soggetti dell’esperienza. Intelligenza (noùs) e anima (psychè) non sono, infatti, per il pensiero antico (e, almeno fino a san Tommaso — anche per il pensiero medioevale) la stessa cosa, e l’intelletto non è, come noi siamo abituati a pensare, una «facoltà» dell’anima: esso non le appartiene in alcun modo, ma « separato, incommisto, impassivo», secondo la celebre formula aristotelica, comunica con essa per attuare la conoscenza. Conseguentemente, il problema centrale della conoscenza non è, per l’antichità, quello del rapporto fra un soggetto e un oggetto, ma quello del rapporto fra l’uno e il molteplice. Per questo il pensiero classico non conosce un problema dell’esperienza come tale, ma ciò che si pone per noi come problema dell’esperienza, si presenta naturalmente ad esso come problema del rapporto (della «partecipazione», ma anche della «differenza», come dirà Platone) fra l’intelletto separato e i singoli individui, fra l’uno e il molteplice, fra l’intellegibile e il sensibile, fra l’umano e il divino. Ed è questa differenza che il coro dell’Orestea di Eschilo sottolinea, caratterizzando — contro l’hybris di Agamennone — il sapere umano come un pàthei màthos, un imparare solo attraverso e dopo un patire, che esclude ogni possibilità di prevedere, cioè di conoscere con certezza alcunché.)]

A questa separazione dell’esperienza e della scienza, del sapere umano e del sapere divino, l’esperienza tradizionale (quella, per intenderci, di cui si occupa Montaigne) si mantiene fedele. Essa è precisamente esperienza del limite che separa queste due sfere. Questo limite è la morte. Per questo Montaigne può formulare il fine ultimo dell’esperienza come un avvicinamento alla morte, cioè come un portare l’uomo a maturità attraverso un’anticipazione della morte in quanto limite estremo dell’esperienza. Ma questo limite resta, per Montaigne, un inesperibile, a cui è possibile soltanto avvicinarsi («si nous ne pouvons le joindre, nous le pouvons approcher»); e, nel momento stesso in cui raccomanda di « abituarsi » e « togliere l’estraneità» alla morte («ostons luy l’estrangeté, pratiquons le, n’ayon rien si souvent en teste que la mort»), egli ironizza però su quei filosofi «si excellens mesnagers du temps, qu’ils ont essayé en la mort mesme de la gouster et savourer, et ont bande leur esprit pour voir que c’estoit ce passage; mais ils ne sont pas revenus nous en dire les nouvelles».

Nella sua ricerca della certezza, la scienza moderna abolisce questa separazione e fa dell’esperienza il luogo — il «metodo», cioè il cammino, — della conoscenza. Ma, per far questo, essa deve procedere a una rifusione dell’esperienza e a una riforma dell’intelligenza, espropriandone innanzitutto i soggetti e ponendo al loro posto un unico nuovo soggetto. Poiché la grande rivoluzione della scienza moderna non consistette tanto in un’allegazione dell’esperienza contro l’autorità (dell’argumentum ex re contro l’argumentum ex verbo, che non sono, in realtà, inconciliabili), quanto nel riferire conoscenza e esperienza a un soggetto unico, che non è altro che la loro coincidenza in un punto archimedico astratto: l’ego cogito cartesiano, la coscienza.

Attraverso questa interferenza di esperienza e scienza in un unico soggetto (che, essendo universale e impassibile e, nello stesso tempo, un ego, riunisce in sé le proprietà dell’intelletto separato e del soggetto dell’esperienza), la scienza moderna riattua quella liberazione dal pàthei màthos e quella congiunzione del sapere umano col sapere divino che costituivano il carattere proprio dell’esperienza misterica e che avevano trovato nell’astrologia, nell’alchimia e nella speculazione neoplatonica la loro espressione prescientifica. Perché non nella filosofia classica, ma nella sfera della religiosità misterica tardo-antica, il limite fra umano e divino, fra il pàthei màthos e la pura scienza (al quale, secondo Montaigne, è possibile solo avvicinarsi, senza mai toccarlo), era stato oltrepassato per la prima volta nell’idea di un pàthéma indicibile in cui l’iniziato compiva l’esperienza della propria morte («conosce il fine della vita», dice Pindaro) e acquistava così «previsioni più dolci riguardo alla morte e al tempo compiuto ».

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